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Concorso Laghese di Narrativa e Poesia "Il mio Paese. Ieri, oggi e domani"
XXI Edizione

Ultimo aggiornamento: 02 Dicembre 2019
Clicca qui per il bando completo del concorso
Andamento del concorso:

Resi pubblici i risultati e portata a termine la cerimonia di premiazione.
Non è prevista una graduatoria delle opere partecipanti: la giuria si occuperà di definire il podio ed assegnare eventuali menzioni d’onore.

Risultati

Sezione narrativa

1. classificato: Anastasio Giorgio, con “Couchsurfing”.
2. classificato: Muscardini Giuseppe, con “L’ombra lunga del campanile”.
3. classificato: Giancola Carmelina, con “La voce del silenzio”.


Sezione poesia

1. classificato: Balestriere Pasquale, con “Pomeridiana”.
2. classificato: Vettorello Rodolfo, con “Gildo.
3. classificato: Secco Silvia, con “Cosa rimase dopo degli alberi se gli alberi”.
Opera segnalata: Redaelli Giulio Enea, con “Domenica in piazza”.


Opere vincitrici



1° classificato narrativa Giorgio Anastasio “Couchsurfing”


I gradini sconnessi si inerpicano dal Paese Nuovo fino alla mia casa avita. Sono in numero variabile, a seconda dell’umore mutevole che mi pervade. Non ho la capacità psichica di plasmare la realtà modificando pietre millenarie, ma, molto più prosaicamente,cambio sovente percorso. Il Paese Vecchio nel quale vivo dalla nascita, infatti, è un dedalo di vicoli, scalinate, androni aperti, cortili occlusi, magazzini a volta, porticine di legno malridotto, retaggi di antichi orticelli infestati dalle erbacce,chiese distrutte che sorreggono targhe con nomi di briganti libertari e papi dimenticati. Come tanti vecchi centri italiani, il Paese Vecchio è una chiocciola arroccata su una collina, una spirale culminante nella Chiesa antistante l’unica piazzetta in piano. E io, con la sporta della spesa, poiché su non ci sono più spacci alimentari, dopo aver finito di lavorare come bidello nella scuola elementare, risalgo in serpentina,svolgendo e cambiando il mio tragitto per vari fattori, da certi saluti a taluno a qualche scambio con talaltro. Qui, tra noi naufraghi della storia, vige ancora una appagante forma di baratto: il mio spezzatino di carne, che lascio la mattina all’andata, è insuperabile, ma la pizza con la cicoria della Signora Franca o le melanzane sottolio della comare Silvana sfidano ogni umana suzione. Se non ho incontri da fare, mi lascio guidare dal mio naso. Odori di cantina, vini in fermento, assi marce, animali in putrefazione. Può capitare, quindi ed anche, che il percorso si modifichi a seconda della stagione (certi anditi all’aperto, ad esempio, con la pioggia diventano insidiosi torrenti) o un vicolo decada dal mio interesse contingente se il suo atavico abitante scende nel Paese Nuovo o passa nel Paese più alto di tutti, lassù. Negli ultimi anni, inoltre, evito i sempre più frequenti scorci che i vacanzieri di città stanno intonacando, con orridi giallo e rosa acceso, o ristrutturando con posticcia pietra viva, in luogo del nostro usuale muro a secco color abbandono. Questa metamorfosi imposta al Paese Vecchio mi è imperscrutabile, per non dire odiosa. Questi Vandali della modernità, stimati professionisti delle metropoli, ci hanno invaso, attratti non solo dalla tranquillità che loro stessi stanno distruggendo, ma anche dal grigiume medievale che li ha così felicemente spinti a comprare qualche tugurio, onde decidere di trasformalo in tutt’altro, ristrutturare dicono loro, riqualificare dicono i politici, in una revisione da depliant turistico del nostro piccolo borgo antico. La maggior parte viene solo ad agosto, favorendo così un ulteriore svuotamento, poiché le case ammodernate restano bomboniere vuote per nessun invitato. Spesso sono discendenti di uno di noi sopravvissuti. Quando moriamo, il vicolo del trapassato ha buone probabilità di fare questa fine: ristrutturazione o riqualificazione.
La casa ereditata da mia madre e mia zia monaca, le quali, lo so, sferruzzano ai piedi di Nostro Signore spettegolando di ogni vizio mio, affaccia sulla piazza della Chiesa, dedicata a un Michele Arcangelo meno battagliero del solito. Mi hanno lasciato un labirinto dai soffitti a volta che divido con i miei gatti. Le uscite sono molte, i nascondigli infiniti, i piani molteplici. Il pavimento della cantina è in terra battuta, luogo perfetto per infossare gli avanzi delle vittime disossate nel vecchio frantoio di famiglia. Anche il pozzo mi è utile, doppiamente. Nelle foto che ho messo on line, fa anche il suo bell’effetto scenografico.
Oggi sono rincasato prima.
Sto aspettando degli ospiti, una coppia di giovani tedeschi in vena di Grand Tour, zaino in spalla e via a piedi lungo la nostra penisola. Saranno educati come tutti i nordeuropei che ho già accolto. I turisti mi contattano sul sito di couchsurfing a cui sono iscritto, tramite il quale offro ospitalità gratuita ai viaggiatori. Adelmo, due vicoli più giù, avrà i nipotini della Grande Città a pranzo domenica e ha chiesto la mia specialità. Gli lascerò il ragù, scendendo a lavoro domani, quindi sarò costretto a cucinare i due viaggiatori stasera stessa. Al ritorno mi darà un barattolo di olive in salamoia e un sacco di castagne.
Adoro rimpinzarmene dopo una bella cena di carne teutonica alla brace.



2° classificato narrativa Giuseppe Muscardini “L’ombra lunga del campanile”.


Gli uomini soffrono di profonde nostalgie. Alcuni paiono forti e invulnerabili, ma al primo refolo di vento che d’autunno sospinge le memorie, franano rovinosamente in preda ai rimpianti. Sehnsucht, chiamano i popoli di lingua tedesca questa viscerale sensazione di abbandono, frutto dell’idea della caducità, del tempo che passa riconvocando i tasselli di una vita trascorsa all’ombra del campanile. Quando il campanile è romanico, e rossastro, e frustato dalle intemperie dei secoli, con la sua ombra lunga su una piazza antica, la Sehnsucht
ancora più struggente, ad indicare come le generazioni, succedendosi, abbiano vissuto in quella piazza, con quell’ombra lunga, i medesimi entusiasmi e scoramenti. A tutto ciò si accompagna la sacralità delle cose, che immutate e perenni si trovano negli spazi più rappresentativi del luogo in cui si è nati o si vive. Le generazioni, pur nelle diverse temperie ideologiche, si succedono a ritmo vorticoso: uomini e donne prendono coscienza di aver trascorso la maggior parte del loro tempo tra simboli e luoghi che portano scolpiti nella mente, e più gli anni passano e più i luoghi e simboli si radicano dentro come valore imperdibile, di cui non si può fare a meno. Questa consapevolezza muove allora ricordi lontani, insopprimibili, dove il passato acquista per ognuno significato vitale, e dove i gesti, le abitudini, il dialetto, con i suoni talvolta aspri e rudi, si caricano di infinita dolcezza e languore, perché richiamano i toni della lingua dei nostri padri e delle nostre madri, il loro amore, il loro biasimo, la loro allegria, talvolta il loro silenzio severo.
Nella piazza antica si legge tutto questo. Si percepisce ancora, come se fosse accaduto solo ieri, il trambusto degli infuocati comizi degli anni Cinquanta, con sfoggio di eloquenza da parte dei politici, che ripescavano dal trascinante entusiasmo di Togliatti o di De Gasperi il linguaggio incomprensibile per molti, ma degno ugualmente di scroscianti applausi. Si avverte l’eco del tramestio degli scioperanti, raccolti attorno alle loro bandiere rosse mentre intonano l’Internazionale, e le sirene della Polizia, con uomini in divisa che scendono rapidi dalle camionette brandendo gli sfollagente. In quella stessa piazza antica ritornavano ogni sera d’estate le donne che prestavano mano d’opera nelle campagne. Inforcavano biciclette cigolanti, sollevando con lentezza le gambe affaticate, reggendo con abilità la lunga zappa, posata sulla spalla e sul manubrio. Portavano larghi cappelli di paglia, con cui proteggevano il capo, ma che non coprivano i segni dell’evidente estenuazione sul loro viso. A frotte attraversavano la piazza alla stessa ora, urlandosi all’incrocio delle strade un saluto secco. Con le compagne più anziane, per rispetto, usavano il “voi”, e raramente si udiva uscire dalle loro bocche espressioni convenzionali di saluto, ma laconici Av salùt!, o un augurale A s’avdrén!, dove l’uso del futuro era intenzionale, quasi a garantirsi, a Dio piacendo, la possibilità di un incontro per l’indomani. Anche Dio, con i suoi benevoli emissari, era presente in quella piazza. Nonostante una diffusa visione marxista dell’esistenza, si capiva come il presunto ateismo fosse più proclamato che reale, perché in silenzio, ai margini della lunga processione, un poco distaccati ma presenti, gli uomini scortavano ogni anno la bella statua policroma della Madonna. Si leggeva sul volto dei più accesi mangiapreti un trattenuto compiacimento di ritrovarsi davanti alla chiesa, simbolo parlante del loro paese. E la Vergine pare aver ricambiato la cortesia. Un recente restauro della statua ha evidenziato nel panneggio della veste la medesima tonalità di colore della bandiera rossa, orgogliosamente esibita il primo Maggio di ogni anno.
La piazza come teatro di eventi, emozioni, ricordi, speranze e abiure dottrinali, mentre con cadenza ritmica, invariata, echeggiano i rintocchi dal rosso campanile romanico, a scandire il tempo che scorre, i quarti d’ora che sfumano, a memoria perenne del lento disgregarsi delle cose, dell’ineluttabile alternarsi degli eventi che contano: la vita, l’amore e la morte. Se ci si pone in ascolto, tra i fruscii delle foglie d’autunno che s’alzano al vento, o nell’ovattato silenzio della prima neve dell’anno, nella piazza si è facilmente raggiunti da un senso di genuina armonia con il mondo. E non è dissacratoria l’animazione giocosa alla quale ci sottopongono i giovani nelle sere d’estate, quando improvvisano nella piazza rumorose partite di calcio, segnando con zaini e indumenti i pali della porta, una a difesa della chiesa, l’altra del Municipio. Esiste oggi un’immagine più felice per incarnare lo spirito di aggregazione di una comunità? Esiste forse altro modo più idoneo di concepire l’unione fra passato e presente? La vita come partita con il destino, la lotta suprema del piacere sul dolore, della salute sulla malattia, della pace sulla guerra, si consuma qui, all’ombra lunga e protettiva del campanile, dilatata sull’intero paese, un’ombra che lambisce i punti più lontani, dove si vuole che il nostro ricordo si fermi, attardandosi sui particolari di vite già trascorse, su evanescenti fisionomie di soldati caduti in guerra, sulle sembianze rugose dei contadini bruciati dal sole, sui bambini mai diventati adulti, perché falcidiati dal mal sottile o dal tifo. Ben venga, allora, l’immagine allegra e gioiosa dei giovani che dispongono pienamente della piazza per il football, con i loro chiassosi apparecchi che diffondono un dissonante rap, e questo infonda in ognuno l’umanissima propensione a fruire degli spazi storici come spazi dell’anima, dove spesso l’infinito si impasta con il quotidiano. C’è bisogno dell’uno e dell’altro. Da questa visione rassicurante partono i ricordi vivissimi della mia generazione, che per il fatto di essere stata risparmiata dagli orrori della guerra, può dirsi fortunata. Crescere in pace facilita l’accumulo di ricordi, senza immagini da dimenticare, senza orrende visioni di miseria e di morte, e resta la felliniana dimensione di un privato amarcòrd, di quando, bambini, si scorrazzava nella piazza, uscendo dalla lezione di catechismo. Faceva freddo, in quelle sere d’inverno, ma non si avvertiva sulla pelle che un senso di vibrante eccitazione di ritrovarci ancora fuori con il buio, lanciati in corse forsennate, inesausti e sudati. “Carne che cresce!”, sentenziavano i vecchi, passando con lentezza e alludendo alla nostra invidiabile energia. Alcuni di loro, con ampie volute del braccio, si gettavano sulla spalla il lembo di un tabarro scuro che li avvolgeva come funebre panno, armonizzando con un copricapo ben calcato sulle orecchie. Tutto si stemperava in fretta, ogni cosa vanificava in giochi di piazza, tra i volteggi acrobatici delle figurine dei calciatori, gettate contro il muro screpolato del campanile. Vinceva chi riusciva a farle restare in piedi, di taglio, il volto del calciatore rivolto verso di noi. Esattamente come nella logica crudele della vita: vince chi resta in piedi, fiero e risoluto, guardando gli altri negli occhi. Quante regole dispensava la piazza, a nostra insaputa! Rinfocolava e al tempo stesso leniva pulsioni naturali, distraendoci in giochi infantili. La piazza, coagulo di emozioni verginali, induce oggi ad un ritorno al passato, ad una condizione emotiva che la mutata spazialità, insieme al lento accumulo degli anni su di noi, rende più forte e più dolce. È gradevole porsi sotto l’ombra lunga del campanile che attraversa idealmente il tempo e lo spazio, e in disparte, come chi non è visto, mi piace esultare all’urlo del giovane che segna il goal nella rete avversaria. La palla rimbalza sul muro della chiesa e mi raggiunge. Ecco avanzare l’incontenibile impulso infantile che non so ancora frenare. Colpisco di sinistro la palla e la rilancio al centro della piazza. Rimbalza. Lì voglio che resti, a rimbalzare per anni, insieme alla mia indomabile Sehnsucht.



3° classificato narrativa Carmelina Giancola, “La voce del silenzio”


Dopo il pranzo di ferragosto decidiamo di fare una passeggiata tra i vicoli stretti e scalinate ripide. Durante la passeggiata riemergono ricordi di persone che hanno tracciato un sentiero di valori e indicato, con l’esempio e con il coraggio, come fare per ricucire gli strappi al tessuto della vita e dare continuità all’esistenza. I ricordi si sono accumulati come neve. Neve che d’inverno trasforma i nostri paesi accoccolati su speroni di rocce, in paesi da presepe. Paesi che incantano con il loro silenzio e che sembrano uscire dalle pagine di un libro di favole. Ricordi che si mescolano in un continuo subbuglio tra immagini allegre e spensierate e sfumature di malinconie; rivivo anche i desideri e i tanti sogni presuntuosi che il tempo e la realtà, hanno incrinato. Riannodo le fila della memoria e rifioriscono nella mia mente i sentimenti di separazioni che segnarono la mia infanzia con distacchi penosi ma necessari. Perdita degli affetti dovuti all’emigrazione che mi causavano turbamenti e angosce. Le partenze avvenivano al mattino presto, nel trambusto generale e dopo tante notti insonni e un via vai di parenti che volevano salutare. Risuonavano a lungo nell’aria greve della casa: ”Fate buon viaggio, scrivete presto”. Le partenze portavano via i volti, i sorrisi, le parole e il tempo vissuto insieme ai fratelli. Dentro di me s’insinuava il vuoto e il dolore, e le voci del silenzio avevano il sapore della solitudine. Ancora oggi ho paura dell’abbandono che mi procura una malinconica nostalgia che scolorisce il mio mondo, il mio tempo, e s’insinua all’improvviso, in qualsiasi ora, tra i miei pensieri. Mi rivedo in famiglia, io piccola, circondata da tanti fratelli e sorelle più grandi che parlavano, che gridavano, che sussurravano parole incerte di rassicurazione. Quando la mia anima si smarrisce e le ferite nuove si sommano alle antiche e diventano più dolenti, quando la sera, inquieta, mi aggiro nel buio in cerca di un approdo, allora assaporo più che mai il valore e l’essenza affettiva della mia famiglia numerosa. Sensazioni che si mescolano in un continuo subbuglio tra immagini allegre e spensierate e sfumature di tristezza; rivivo anche i desideri e i tanti sogni presuntuosi che il tempo e la realtà, hanno incrinato. Sento ancora lo stormire degli ulivi nel giardino dietro la casa e il mormorio confuso di voci sul terrazzo, sento ancora un frusciare di vesti nella chiesa, il profumo ardito dell’incenso e noi bambini seduti in prima fila, la mamma dietro, il papà di lato, e un pensiero mesto mi afferra. Così, dopo tanti anni e tante esperienze, io interpreto ancora in canto sommesso l’ansito e il lamento del fiume che scorre tra le rocce bianche, giù nella valle. I gemiti del vento intrappolati nell’aria, tra le querce del boschetto, li trasformo ancora nella mia fantasia, in un brusio e pianto. Pianto che s’intrecciava con i nostri giochi e le varie faccende domestiche che ogni figlio doveva assolvere.
C’era sempre un vocio di gente a casa nostra che s’attorcigliava con il nostro parlare esuberante. Vocio di gente che raccontava storie di un tempo logoro di fatica e la voce suadente della mamma addolciva sempre l’ira di quelle serate anguste, dove la luce illuminava a fatica la vivacità dei giovani volti e gli sguardi intrepidi di noi figli. Sogni e illusioni costruiti in abbondanza da giovani impavidi che hanno abbandonato in seguito il paese, com’è avvenuto in altri borghi arrampicati sugli speroni di roccia del nostro antico territorio. Siamo in un piccolo paese aggrappato ad una collina lungo la valle del Biferno. Il fiume sembra chiamarlo, ma le sue case, e la roccia di tufo con il suo antico palazzo, resistono all’invito del fiume, sonnecchiano e caparbiamente si oppongono all’usura del tempo…Vediamo uscire dal cortile del convento alcune persone che parlano vivacemente di qualcosa che ha colpito la loro attenzione. Spinti dalla curiosità, andiamo anche noi. Da bambini, insieme ad altri compagni, venivamo spesso a giocare nel chiostro tra l’erba che cresceva incolta come in un campo abbandonato. Si sentivano le nostre risate e le nostre frasi giocose, le conte e le filastrocche imparate a memoria. Entriamo nel portico restaurato e guardo intorno. Rimango sbalordita! Il chiostro ha una bellezza altera ed è immerso nello splendore rilucente del sole d’agosto. Tocco con le mani le pietre delle colonne e le maioliche che sono tornate a risplendere; questo luogo mi fa ritornare al passato, a quando vivevo in famiglia, ma nello stesso tempo mi proietta nel futuro con un’immagine di liberazione serena e lieve. Mi sento sciolta dai miei problemi ed ho una sensazione di dolcezza che rende lo sguardo profondo. Ora la mia mente segue altri pensieri…Nell’ultima luce del pomeriggio, prima che il sole scenda dietro le colline e i tortuosi filari di alberi, con l’immaginazione rievoco le emozioni di un tempo, in quelle estati da adolescente felice, di recite all’oratorio sul palco improvvisato. Mi sembra di essere come allora, ragazza quindicenne che aspirava ad essere una persona capace di realizzare grandi cose. Spesso ne parlavo con l’amica d’infanzia, lei era d’accordo con me, e in questi buoni propositi ci sostenevamo a vicenda, ed eravamo sinceramente convinte di realizzare i nostri sogni. E questa nostra convinzione ci riempiva di contentezza. Passeggiavamo tra i vicoli con tante idee briose e ci scrutavamo silenziose negli occhi e ognuna vedeva nelle pupille dell’altra i desideri e i nobili sentimenti che ci avvolgevano, collegati da un filo invisibile… In questo giorno d’agosto, sotto un cielo che sembra di smalto e di vetro, impetuosa mi torna in mente, come corrente che trascina, la sagoma di una persona. Torna con un odore particolare passando davanti alla nostra casa, come il profumo del nido dell’anima. Profumo di madre.
La giornata di ferragosto è trascorsa tra le passeggiate nei vicoli, tra i ricordi di un passato ricco di affetti, tra nuove e vecchie amicizie. Ho risentito nelle narici l’odore della mia terra, della mia famiglia, l’ho sentito parlando con le persone anziane rimaste nel borgo, ed ho stretto mani ruvide all’ombra dei portoni. Ho rivisto i suoi colori nella campagna abbandonata, brulla, deserta e chiazzata da solitari ciuffi d’erba e fiori selvatici, ed ho gustato i suoi antichi sapori.
Forse…, domani, la mia famiglia tornerà nella vecchia casa, ristrutturata e decorata, e i vicoli abbandonati si riempiranno nuovamente di voci, di passi, di richiami, come una volta, tutti i giorni, non solo a ferragosto. Forse domani, le case abbandonate avranno nuova vita, gli usci si riapriranno, i fiori, sui balconi con mattonelle sconnesse torneranno a fiorire. Forse domani la campagna rinsecchita e desolata rinverdirà e i campi di grano dorato nel mese di luglio ondeggeranno alla brezza del tramonto. E torneranno le rondini sotto le grondaie, a stormi. Forse domani sentiremo un belare di armenti lungo i tratturi, guidati da famiglie di pastori e la serpe che al sole si crogiola, scapperà via e non sarà più la sola padrona dei sentieri. Forse domani ci sveglieremo all’alba al canto di un gallo maldestro e riprenderemo con il cellulare la schiusa delle uova sotto la chioccia e il pigolare sommesso, forse, ci farà tenerezza come il vagito di un neonato. Forse sentiremo di nuovo per le strade la voce dell’arrotino e durante la novena di Natale ascolteremo le nenie degli zampognari sugli usci delle porte lasciate aperte, come una volta. Forse domani, la mia famiglia sparsa per il mondo, tornerà a vivere in questo borgo. Cammino rapidamente, come se quest’andare in fretta mi avvicinasse al momento in cui tutto nel nostro paese sarà armonioso, come ora appare nella mia immaginazione…Lasciamo lentamente il paese alle spalle, oltre la valle, le montagne del Matese si stagliano contro il cielo scurito e terso e un tacito sereno sollievo mi afferra Mi sento orgogliosa e fiera di appartenere a questa terra umile e rigogliosa, ricca di arte, tradizioni e cultura, che sa donare frutti a chi l’ama e la difende. Mi sento orgogliosa di appartenere ad un popolo che protegge e custodisce le sue origini e che sa apprezzare il calore della propria gente, gente coraggiosa che non disdegna di vivere ancora in un ambiente rurale, fatto di piccole cose. Gente che abita nel borgo e nelle campagne impervie, con strade, in alcuni tratti non asfaltate, tra viottoli e stradine sconnesse. Persone che sanno divulgare, attraverso i riti e le tradizioni, la storia millenaria della propria terra. Storie scritte sui tratturi, impresse nelle rocce, cristallizzate nei massi e nelle pietre. Eventi antichi di pastori transumanti e agricoltori instancabili, riflessi nelle sorgenti pure e lungo le acque cristalline del fiume Biferno, storie disegnate sul Matese e sulle Mainarde infiammate dal sole.



1° classificato Poesia Pasquale Balestriere “Pomeridiana”


Selci ammassate al sole
in ritmi amorfi disegnano aiuole
di loquace smeraldo.


Morde la terra un sole bruciante,
limite a zone d’ombra
di franta geometria.


Raro sorge e cammina
qualcuno nel silenzio
a tratti rotto
da stupidi ringhi di auto.


Chioccola per fortuna la fontana,
lenta scandisce il suo tempo mansueto
-controra sonnolenta
percorsa da profumi di ginestra,
da sistri di cicale-.


Ancora ha qualche campo il mio paese
d’alberi e viti,
e fonte e canto.
Forse stanotte sentiremo i grilli.



2° classificato poesia Rodolfo Vettorello “Gildo”


Ci incontreremo sulla strada vecchia,
quella che sai,
tra rive profumate di gaggia
e sarà bello dirsi della vita,
degli anni andati,
parlare di passato e nostalgia.
Un mito, Gildo,
tu che conoscevi
il segreto dei nidi e la maniera
di tendere una trappola ed il gesto
d’afferrare un coniglio per gli orecchi.
Ed io,
una vita sprecata nel rimpianto
di me, com’ero.
Ci incontreremo sulla strada vecchia,
quella che passa accanto al cimitero.
E ritrovarsi accada come adesso
all’ombra lunga
di un lugubre filare di cipressi.
Ti rivedo, seduto come un tempo,
con il cappello a lobbia tra le mani,
su una lastra di marmo, col tuo nome.
Il muro intorno
non imprigiona noi ma il mondo fuori.
Di là dal muro l’universo amato.
Il campanile altissimo, a cipolla,
come usa quassù
e la montagna cara.
Dalla cima, dicevi,
si vede a volte, quando il cielo è terso,
il tremolio
della laguna azzurra di Venezia.



3° classificato poesia Silvia Secco “Cosa rimase dopo degli alberi se gli alberi”


Cosa rimase dopo degli alberi se gli alberi
si rovesciarono sulla tovaglia, sradicati
gli uni sopra gli altri, fiammiferi.
Che cosa rimase al fuoco, ai fabbricanti
delle provviste, dei rifugi, cosa
degli esseri terrestri e dei cieli rimase
dopo, dei loro nidi, dei gusci al riparo nei nidi.
Dopo sarebbe discesa, pietà e unzione di neve
avrebbe coperto, livellato. Io non ti ho portato
a vedere: le altitudini qui sono sacre.
I morti di tutte le specie, anche loro sono ciechi,
anche loro si chiedono.



Risultati di tutte le edizioni del concorso:
Concorso Nazionale Laghese di Narrativa e Poesia "Stagioni di versi e racconti: l'estate" XXVI Edizione
Concorso Nazionale Laghese di Narrativa e Poesia "Le piccole cose che ci fanno stare bene. Riconoscerle e raccontarle" XXV Edizione
Concorso Nazionale Laghese di Narrativa e Poesia "La Natura è madre. Parole e pensieri per l'ambiente" XXIV Edizione
Concorso Nazionale Laghese di Narrativa e Poesia "Sogni per il mio domani" XXIII Edizione
Concorso Laghese di Narrativa e Poesia "Vite in Viaggio. Riflessioni, racconti, versi sul personale senso del viaggiare" XXII Edizione
Concorso Laghese di Narrativa e Poesia "Il mio Paese. Ieri, oggi e domani" XXI Edizione
Concorso Laghese di Narrativa e Poesia "Racconti diVersi" XX Edizione
Concorso Laghese di Narrativa e Poesia "La Famiglia" XIX Edizione
Concorso Laghese di Narrativa e Poesia 2016 XVIII Edizione
Concorso Laghese di Narrativa e Poesia XVII Edizione
Concorso Laghese di Narrativa e Poesia  XVI Edizione
Concorso Laghese di Narrativa e Poesia 2013 XV Edizione. Tema del concorso: Nel mondo dei sentimenti: il Dono.
Concorso Laghese di Narrativa e Poesia "Nel mondo dei sentimenti: L'amore" XIV Edizione
Concorso Laghese di Narrativa e Poesia 2011 XIII Edizione
Concorso laghese di narrativa e poesia XI Edizione
 
 
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